28 luglio 2008

Proprio una bella Koisima...


Terminato il Malecon, prima d’immergersi nell’estuario dell’Almendares, tuffandoci nel tunnel di 5.ta Avenida, è quasi automatico dare un’occhiata a destra. La sagoma bianca del Ristorante “1830”, di giorno o di notte, è un classico dell’Avana. La storia del locale inizia nel XIX secolo quando nella zona sorgeva il ristorante Arana, specializzato in riso con pollo (strano…) e baccalà alla biscaglina. Più tardi, fu trasformato nell’Hotel La Mar, dove si trovava un altare, punto in cui terminava la processione della Virgen del Carmen. La magnifica posizione convinse Mister Balbridge a comprare l’immobile e trasformarlo nella Villa Miramar. Nel periodo in cui fu sindaco dell’Avana il Generale dell’Esercito di Liberazione Freyre de Andrade (1912-1916), la dimora venne acquistata dall’avvocato Carlos Miguel de Céspedes Ortiz. È a lui che si devono la bellezza ed il buon gusto dell’intera costruzione, in particolare il fascino del giardino, composto da un’isoletta artificiale con piccole grotte e passaggi nascosti, chiamata “Koisima” (in giapponese “Isola dell’Amore”), e da una parte alberata e caratterizzata da un bellissima costruzione mudéjar, detta “La Mezquita”, decorata con mattonelle portate dalla Certosa di Siviglia. In questa residenza, il cui indirizzo esatto è Calzada y 20, vicino alla torre d’avvistamento de La Chorrera, visse per molto tempo sua madre, la signora Eloisa Ortiz Coffigny, la cui famiglia diede a Cuba illustri medici. Don Carlos Miguel Tranquilino de Céspedes y Ortiz Coffigny, come venne battezzato a Matanzas nella chiesa di San Borromeo, era nato il 6 giugno 1881 e discendeva per il ramo paterno da una famiglia proveniente da Siviglia e stabilitasi a Bayamo nel XVII secolo, a cui apparteneva anche Carlos Manuel de Céspedes del Castillo, Padre della Patria. Per non smentire gli illustri antenati, fu una delle grandi personalità del suo tempo ed un uomo ricchissimo. Figlio di un giudice, com’era tradizione di famiglia si laureò in diritto e fondò, insieme a José Manuel Cortina García e Carlos de la Cruz Ugarte, il famoso studio legale delle 3 C, così chiamato per le iniziali dei cognomi dei tre soci. Dato che gli avvocati Céspedes e Cortina furono dirigenti del Partito Liberale ed il dottor de la Cruz del Conservatore, nell’alternanza governativa di quel periodo, lo Studio non perse mai le redini del potere. Ebbero quindi la possibilità di promuovere opere realizzate da imprese a loro collegate, quali la costruzione della 5.ta Avenida, dell’Ippodromo di Marianao e dell’urbanizzazione della spiaggia di questo municipio. A Miramar, sulla 5.ta Avenida, erano proprietari dello stabilimento balneare la Concha e del parco di divertimenti Coney Island, che nel 2007 è stato ricostruito ed è nuovamente in funzione. Don Miguel si contraddistinse per un’attivissima vita politica, tanto che durante il periodo in cui fu Segretario delle Opere Pubbliche del governo di Machado venne soprannominato “El Dinámico”. Alla sua iniziativa si deve la nascita della Carretera Central, del Capitolio Nacional, con il famoso brillante che ne segnala il chilometro zero, della Avenida del Puerto, della Plaza de la Fraternidad, del Boulevard (San Rafael), del Paseo del Prado, dell’Hotel Nacional, della grande scalinata con la statua dell’Alma Mater dell’Università e di gran parte delle strutture dell’ateneo, dell’ospedale “Enrique Núñez”, di quasi tutti i padiglioni dell’ospedale “Calixto García”, oltre a numerosissimi edifici pubblici nel resto di Cuba, tra cui il “Presidio Modelo” in quella che diventerà l’Isola della Gioventù. Però, nonostante tutto, quando il 12 agosto 1933 cadde il governo Machado, la sua casa del reparto Country Club, in stile normanno, venne assaltata ed incendiata dalla folla, ed andò persa la sua biblioteca d’inestimabile valore. Don Miguel donò le rovine e mille metri quadrati di terreno alla chiesa cattolica e Manuel Arteaga Betancourt, primo Cardinale di Cuba e secondo Arcivescovo dell’Avana, edificò al suo posto la chiesa del Corpus Christi, al cui interno vennero dipinti quattordici affreschi della passione di Cristo. Accanto, venne costruita una scuola per bambini poveri. Una lapide ricorda ancora la fatidica data dell’assalto, richiamando gli uomini di buona volontà, affinché fatti di quel tipo non si ripetano più in questo paese. A Villa Miramar toccò la stessa sorte, ma nel 1937 Don Miguel la ricostruì e fu la sua residenza permanente fino al giorno della morte. Lì visse con il grande amore della sua vita, Margarita Johanet Montalvo e dal matrimonio nacquero tre figlie: Margarita, Martha e Diana. Oltre che politicamente, fu impegnato anche nella vita sociale occupando incarichi direttivi d’altissimo livello nei più famosi club avaneri. Sebbene avesse superato con successo un’operazione per un tumore al colon, l’8 giugno 1955, non riuscì a resistere al dolore per il decesso dell’amata sposa, avvenuto un mese prima. La veglia funebre ebbe luogo nel Capitolio, alla base della statua della Repubblica nel Salone de los Pasos Perdidos, ed il cadavere fu sepolto nella tomba di famiglia, che si trova nella via centrale del Cimitero Monumentale Cristóbal Cólon. Durante gli anni ’50 la villa fu acquistata dalla famiglia Currais, che lo trasformò nella filiale del ristorante La Zaragozana, assumendo il nome attuale. Ai giorni nostri, insieme al Torreón de La Chorrera fa parte della catena di ristorazione Palmares.

23 luglio 2008

Il Focsa


Una delle migliori vedute dell’Avana si può ammirare dalle finestre del bar ristorante “La Torre”, al penultimo piano dell’edificio FOCSA.
Alto ben 121 metri, con 39 piani, occupa completamente l’isolato compreso tra le strade 17, 19, M ed N del Vedado, per una superficie di oltre 10mila metri quadrati. Il FOCSA si divide in tre parti principali. La prima ospita nei piani bassi negozi, studi televisivi, uffici, bar, un’agenzia pubblicitaria, il teatro ed un parcheggio per ben 500 automobili. La seconda è u
n blocco di 29 piani, di cui 28 divisi in appartamenti da 3 o quattro abitazioni. Il piano 29 accoglie 7 attici che completano i 373 appartamenti dell’immobile.
La terza parte, la torre centrale, ospita il ristorante “La Torre”, di cui vi parlavo in precedenza.
Ma veniamo alla storia del FOCSA. Nel 1952, la dirigenza della potente catena radiotelevisa CMQ S.A. decise di costruire un edificio destinato agli artisti ed ai dipendenti dell’emittente. L’idea originaria era di costruirlo nel municipio di Arroyo Arena, ma la lontananza dalla sede centrale fece scartare l’idea. L’attenzione, così, fu centrata sui terreni occupati allor
a dal Club Cubaneleco, di proprietà dell’americana Cuban Electric Company. Il prezzo della vendita fu di 700mila dollari e il progetto fu affidato all’ingegnere Luis Sáenz Duplace e agli architetti Ernesto Gómez Sampero, Martín Domínguez e Bartolomé Bestard.
Prima di cominciare i lavori, nel febbraio del 1954, furono eseguiti diversi studi sulla staticità dell’edificio. Si calcolò, ad esempio, che forti venti di 240 chilometri orari avrebbero fatto oscillare la parte superiore di solo 10 centimetri. L’edificio fu costruito in appena 28 mesi e furono necessari ben 35mila metri cubi di calcestruzzo. Terminati i lavori, nel giugno 1956, il FOCSA era il secondo edificio in cemento armato più alto del mondo.
In poco più di un anno, tutti gli appartamenti furono venduti: quelli di tre stanze a 17.500 dollari e quelli di quattro a 21.500 dollari.

Un’ultima curiosità, il nome FOCSA non è altro che l’acronimo della società capogruppo dell'operazione immobiliare: la Fomento de Obras y Construcciones Sociedad Anonima.

22 luglio 2008

Cabala.

La smorfia ci suggerirebbe oggi di giocare l’ambo 43 e 48 sulla ruota dell’Avana. Scopriamone il motivo. La nostra storia risale ai tempi del Governo del Presidente Grau. Da quando era andato al potere, il 10 ottobre 1944, gli attentati erano quasi all’ordine del giorno e uomini come Orlando León Lemus, detto El Colorado, imperversavano con le loro bande al servizio di chi pagava meglio. Il 6 settembre 1946, accadde però un fatto che sconvolse la città: l’attentato numero 48. Tutto il mondo politico, l’opinione pubblica e gli stessi gangster presero le distanze, “Non mietiamo vite innocenti”, dichiarò alla stampa lo stesso Colorado.
Alle nove di sera di quel caldo settembre avanero, mentre l’automobile ufficiale del dottor Joaquín Martínez Sáenz, senatore della Repubblica e ministro senza portafoglio, procedeva senza fretta sulla Quinta Avenida, venne affiancata da un altro mezzo da cui spararono dei proiettili di grosso calibro. Con grande disappunto e dolore della città intera, la vittima era un giovane di soli 16 anni, che stava tornando dalla spiaggia per andare a prendere lo smoking e recarsi ad una festa. Gli ignoti assassini avevano infatti ferito gravemente alla testa Luis Joaquín Martínez Fernández, il figlio del ministro, che morirà qualche ora più tardi nell’Ospedale militare di Columbia.
Il coro di dolore e rabbia per la morte di un adolescente fu unanime, personaggi come Blas Roca, Eduardo Chibás, Ramón Vasconcelos, Carlos Saladrigas, Jorge Mañach, lo ripudiarono pubblicamente, sostenuti da veterani dell’Indipendenza come il generale Enrique Loynaz del Castillo e dallo stesso Procuratore Generale della Repubblica, il Dottor Rafael Trejo. Persino Grau si rimproverò della sua tolleranza verso i gruppi dal grilletto facile. Persone di ogni credo e posizione politica si presentarono ai funerali.
All’inizio nacquero delle voci di presunti dissidi tra Martínez Sáenz y José Manuel Alemán, Ministro dell’Educazione, ma lo stesso politico, durante il funerale, s’avvicinò al collega manifestando il suo cordoglio e l’intenzione di regolare lui stesso i conti se qualcuno del suo dicastero fosse stato implicato. Secondo il senatore Chibás, l’attività politica di Martínez Sáenz non mostrava punti oscuri che lo collegassero ad affari loschi ed altre attività disoneste. Perché allora questo crudele assassino, che assomigliava ad una vendetta trasversale? E qui entrano in ballo il 43, il caso e la follia.
Il 9 agosto, sempre a Miramar, l’automobile del dottor Antonio Valdés Rodríguez, responsabile del Commercio Estero del Ministero degli Affari Esteri era stata crivellata da colpi di lupara e lo stesso ne era miracolosamente uscito illeso. Era l’attentato numero 43. Valdés Rodríguez e Martínez Sáenz, oltre ad essere due politici, erano anche soci di uno studio legale, e partecipavano alla vita mondana della sfavillante Avana. Fu così che conobbero la coppia formata dal milionario Enrique Sánchez del Monte e Cruz de los Ángeles Betancourt Horstman. La famiglia di Enrique, proprietaria delle piantagioni di canna da zucchero Santa Lucía e Báguanos, nell’oriente cubano, non avevano per nulla fiducia di quella ragazza di cui Enrique si era perdutamente innamorato. Il padre della giovane era stato ucciso da un fratello a Camagüey, a sua volta misteriosamente ammazzato a colpi d’arma da fuoco a Cienfuegos. Inoltre la famiglia contava con un altra morte violenta, in quella che sembrerebbe una faida. A questi timori dei Sánchez del Monte, s’aggiungeva il fatto che la coppia non era tanto bene assortita, dato che a lui piaceva il lavoro, mentre a lei le feste e la vita sociale. Però Enrique amava smisuratamente quella donna e nonostante si dicesse che fosse un po’ tirchio, acconsentiva a qualsiasi sua richiesta. Provava inoltre una devozione per le sue due figlie, Dagmar e Pilar. Poco a poco, Cruz de los Ángeles lo convinse a partecipare ai ricevimenti e mentre lei si compiaceva della sua bellezza, lui diventava sempre più geloso. Dalla violenza verbale, passò a quella fisica, mandandola dal dentista. E a chi si rivolse Cruz de los Ángeles per il divorzio? Allo studio associato degli avvocati Martínez Sáenz y Valdés Rodríguez. Il latifondista dovette pagare alla sua ex sposa 400.000 dollari ed un assegno mensile di 600, con la privazione della tutela e custodia delle bambine. L’uomo ebbe un vero e proprio tracollo e fu internato in una casa di cura. Incominciò a perseguitarlo un’idea ossessiva: quella d’essere stato tradito dai suoi due amici avvocati, che avevano macchinato in combutta con Cruz de los Ángeles. Era ancora giovane, a 43 anni avrebbe potuto rifarsi una vita, ma prima provò ad entrare in una confraternita religiosa, poi incominciò a bere, mentre il proposito di vendicarsi si faceva strada nella sua mente ormai sconvolta. Non aveva però il coraggio di farsi giustizia da solo. Incontrò così Rogelio Herrera, un poliziotto in pensione che lo mise in contatto con Abelardo Fernández, detto El Manquito, tenente della Polizia del Ministero dell’Educazione ai tempi del furto del brillante del Capitolio, che a suo volta gli fece conoscere Román López, noto come El Oriental. El Manquito chiese seimila pesos per la morte di Cruz de los Ángeles Betancourt Horstman, tre mila per quella di Antonio Valdés Rodríguez e cinquemila per Joaquín Martínez Sáenz. L’esecutore materiale sarebbe stato El Oriental. L’omicidio del ragazzo risultò essere un tragico scambio di persona.
Però nella sua pazzia, Enrique Sánchez del Monte parlò delle sue intenzioni anche con l’amico d’infanzia José del Cueto, a quei tempi direttore della Dogana, il quale nel tempo associò i gravi fatti accaduti, comunicandoli a Grau ed anche al comandante Mario Salabarría, capo del Servizio Investigativo e Informazioni Straordinarie (la DIGOS d’allora…). Questi mandò i suoi uomini in calle Galiano n. 153, dove all’interno 74 viveva Sánchez del Monte, e lo fece arrestare. A onor del vero, più di un arresto fu un sequestro, perché non fu portato in nessuna stazione di polizia, ma in una fattoria dove, dopo cinque giorni, fu “convinto” a ripetere la sua confessione davanti al giudice istruttore. Tutte le altre persone implicate, compreso l’ex poliziotto, furono arrestate. Enrique Sánchez del Monte fu condannato ad una pena severa e quando usci dal carcere, all’entrata dell’appartamento che era stato di sua proprietà, si mise a vendere piccoli oggetti fatti con il tornio.

19 luglio 2008

Brividi... di caldo


Parlando di Rachel e Macorina, due vampire delle notti avanere, il pensiero corre immediatamente a Juan Padrón. Come molti sanno, è l’autore del famoso Elpidio Valdés, l’eroico mambí dei cartoni animati, in perenne lotta per la liberazione dagli spagnoli. Però questo brillante disegnatore è anche il creatore di due divertentissimi film, avaneri al 100%, che s’intitolano Vampiros en La Habana e Mas Vampiros en La Habana.
Il primo l’ho visto e rivisto anche per ragioni di lavoro, ma ogni volta scopro un gag nuova, uno scorcio dell’Avana, un riferimento che non avevo notato. La storia racconta di Joseph, alias Pepe, secondo i casi, svezzato dalla zio Werner Amadeus Von Dracula a base di una misteriosa pozione chiamata Vampisol. Questo infuso permette infatti a Pepito di poter vivere anche alla luce del giorno, mentre, come è noto, agli altri vampiri il sole nuoce abbastanza e letteralmente li polverizza. Quando però la notizia si diffonde, L’Avana degli anni Trenta viene invasa da Capa Nostra e da un gruppo di vampiri europei che vogliono impossessarsi della formula. Siamo ai tempi del Generale Machado e l’avventura si snoda tra battute e colpi di scena, fino a quando il nostro eroe, già adulto e fidanzato con Lola, riesce a diffondere via radio la formula del Vampisol, condividendola con tutti i vampiri del mondo. Il lieto fine è assicurato dalla nascita di un figlio e dall’apertura di un locale notturno dove Pepe suona la sua “puñetera trompeta”, doppiata nientemeno che da Arturo Sandoval.
La seconda parte si svolge invece qualche anno più tardi, durante la seconda guerra mondiale, dove le riserve del Vampisol diminuiscono per gli eventi bellici. I nazisti, con la collaborazione degli italiani, vogliono impossessarsi della formula, notevolmente migliorata dal figlio di Pepe che l’ha resa solida con l’aggiunta della guayaba (diventando così Vampiyaba). Anche qui molti riferimenti e personaggi celebri, come Hitler, Mussolini, Stalin, il Papa Hemingway. Ottima una delle scene finali dove l’agente sovietico, contagiato dal clima caraibico del locale di Pepe, canticchia un ritornello su come ballano bene le ucraine, sembrano quasi le russe. Immediatamente, un mulatto magro e dinoccolato s’avvicina al tavolo e sostituisce le nazionalità con messicane e cubane, e mi sembra che la canzone ed il ritmo abbiano poi avuto un discreto successo…
Vi do la ricetta del Vampisol, trascrivetela se ne avete bisogno:
in una notte di luna piena, mischiare con grande precisione due once di menta ed un uovo di camaleonte, aggiungere tre once e un quarto di zucchero di canna, un cuore di lucertola e un pizzico di sale, cinquanta grammi di sangue di colibrì con molta piña colada e un pezzetto di peperone. Unire l’estratto di squalo, mettere il tutto nel frullatore con mezzo litro di rum. Passare il contenuto in un colino di tulle e farlo raffreddare finché diventa blu.

18 luglio 2008

Yo no soy la engañadora!

Il 7 novembre del 1953, un fatto alquanto insolito turbò la tranquillità pomeridiana del Paseo del Prado.
Una stravagante bionda era scesa da un taxi e, con un ombrellino aperto, aveva percorso, cantando e saltellando, tutto il tratto del Prado compreso tra Anima e il Parque Central.
Nulla di strano direte voi... ma la formosa bionda indossava solo uno slip ed un impermeabile… per di più trasparente.
Giovani e meno giovani, dai bar vicini, si riversarono sul Prado, affascinati dalla bionda. Tra complimenti e colpi di clacson, la nostra continuò divertita la sua sfilata sino al Parque Central, dove giustamente fu fermata da un agente della polizia.
“Volevo solo dimostrare che non sono la engañadora” rispose divertita, riferendosi alla nota canzone di
Enrique Jorrín, che parlava di una ragazza che, proprio sul Prado, attirava gli uomini aumentando, con la spugna, le sue misure.
Ovviamente, fu portata in commissariato. Si chiamava
Virginia Martha Lacima, nota come Miss Burbujas, ed era una ballerina statunitense in tournee all’Avana. Presto si sarebbe esibita in un cabaret dell’Avana e aveva voluto pubblicizzare il suo spettacolo, dando una dimostrazione delle sue qualità “artistiche” e non...

17 luglio 2008

Il Carnevale dell'Avana


Ieri, percorrendo in compagnia di Stefano il Malecon dell'Avana, ho notato che i preparativi per Carnevale procedono spediti. Sono già state allestite, infatti, numerose tendostrutture che ospiteranno ristorantini e punti di ristoro veloce. E' ancora presto invece per i palchi, che quest'anno potranno ospitare ben 8.280 persone, e le tribunette con 960 posti a sedere.
Il Carnevale della Capitale si svolgerà dal 1 al 10 agosto e l'area della sfilata comprederà tutto il tratto di Malecon tra Galiano e 23, dalle ore 21 fino a mezzanotte.
Per la prima volta, gli spettatori, dopo l'ultimo gruppo, potranno unirsi al corteo e sfilare sulla Rampa a ritmo di conga.
Al carnevale parteciperanno 13 gruppi, 7 tradizionali e 6 contemporanei. Per la prima categoria ci saranno: La Jardinera, Las Bolleras, La Sultana, El Cabildo de La Habana, Los Componedores de Batea e El Alacrán. Questi ultimi due festeggiano ben cento anni d'attività.
I contemporanei, invece, saranno rappresentanti dalla FEU, Los Guaracheros de Regla, La Giraldilla, Los Jóvenes del Este, La Mazucamba e Los Caballeros del Ritmo.
Il primo "ballo di carnevale" dell'Avana risale al lontano 1833. Notizie più precise degli anni successivi ci sono fornite da González del Valle che, nel 1841, descriveva i balli in maschera della città. I luoghi più utilizzati erano i saloni del teatro Tacón, del Diorama, del Tivoli, del Villanueva o il caffé La Lonja. Le dame utilizzavano carrozze decorate con addobbi floreali, mentre gli uomini, quasi sempre in maschera, andavano a cavallo o a piedi.
I festeggiamenti includevano sfilate per le principali strade della città dell'epoca: Calzada de La Reina, Alameda de Paula e Campo de Marte.
Solo nel 1902, con un'ordinanza del sindaco che ne regolò il percorso, il carnevale dell'Avana prese sembianze vagamente simili a quelle attuali.

16 luglio 2008

Occhio al Tokio...

Un altro personaggio d’inizio secolo vive nell’immaginario avanero ed è Rachel la “Francesita”. Le sono stati dedicati un tango ed un film intitolato “Lo strano caso di Rachel K.”, diretto da Oscar Valdés nel 1973. Rachel Dekeirsgeiter (dal cognome m’azzardo a dire che era alsaziana) arrivò all’Avana portata dal marito Oscar Villaverde, proprietario del famoso cabaret Tokío, sito all’incrocio tra calle San Lazaro e calle Blanco. Nel suo “Vida y milagros de la farandula en Cuba”, lo scrittore Rosendo Rossel ci racconta che in questo locale « Rachel svolgeva le sue caratteristiche funzioni di preziosa vampira...». La vita notturna all’Avana è sempre stata di tutto rispetto ed al Cabaret Tokío suonavano musicisti di valore tra cui i due sassofonisti Mario Bauzá ed Amadito Valdés, mentre alla batteria si trovava Alberto Jiménez Rebollar, supposto amante di Rachel.
Nel 1931 il cadavere di Rachel fu scoperto nella vasca da bagno della casa sita in calle San Miguel angolo con Amistad, al lato del famoso hotel Astor. Il Dottor Reynaldo Villiers nel suo referto medico specificava «di essere stato chiamato dalla Terza Stazione di Polizia ed alle cinque e mezza del pomeriggio si era presentato nell’appartamento sito al terzo piano di San Miguel 38 y 1/2, dove aveva constatato il decesso di una donna di razza bianca, di circa 30 anni, tale Rachel de Keigeter (il cognome è stato storpiato), morta circa quaranta ore prima, senza potere precisare le cause dello stesso». Secondo il medico, Rachel si trovava supina, nuda e presentava delle contusioni multiple su tutto il corpo; la vasca era sporca di sangue. Sebbene il 15 dicembre 1931, il quotidiano El Mundo pubblicherà un disegno in cui la vittima si vedeva in posizione prona, nessun dubbio sul fatto che fu un omicidio. Però qualcosa non quadra e sicuramente non fu una buona indagine. Quando intervenne, la polizia trova la porta chiusa con il chiavistello, tanto che per entrare deve romperla. Siamo al terzo piano, è evidente che l’assassino è uscito dalla porta, e non sbagliamo se diciamo che ha anche le chiavi. L’unico a venir processato fu il musicista, e più tardi giornalista, Alberto Jiménez Rebollar, difeso da un principe del foro, il Dottor Carlos Manuel Palma, “Palmita”, che s’impegnò a dimostrare la sua innocenza e, senza riuscirci, la colpevolezza di Villaverde. Per inciso, ricordiamo che il principale indagato era fratello del sacerdote Armando Jiménez Rebollar, che conservò l’immagine della Vergine de la Caridad che si trova nell’eremo di Miami, “trasferendola” dalla parrocchia di Guanabo e portandola in esilio l’8 settembre 1961. Siccome anche Villaverde, l’altro sospettato, non venne condannato grazie alla difesa del giovane avvocato Miguel Angel Suárez Fernández, alla fine questo fu definito un delitto perfetto solamente perchè non si trovò l’arma (probabilmente una bottiglia di champagne con cui fratturarono il cranio della vittima), non fu scoperto il movente, come fuggì il criminale e non s’incontrarono impronte utili. Visto gli straordinari a cui erano sottoposti, mi sa che al Terzo commissariato non s’impegnarono molto per la “Francesita”.

14 luglio 2008

Il Re di San Isidro...

Esistono due quartieri dell’Avana Vecchia, Jesús María e Belén, che ancora oggi nell’immaginario cittadino risultano poco frequentabili. Devo smentire questa convinzione per averci vissuto e, sebbene sia uno yuma a tutti gli effetti, non mi è mai successo nulla. Tra l’altro qui si trovano alcune perle della zona esterna ai fusti di cannone interrati, posti dall’illustrissimo Historiador Eusebio Leal a demarcazione del centro storico. Tra queste, la stazione ferroviaria, il convento di Belén, la calle Cárdenas e la Alameda de Paula. Detto questo, proprio davanti alla stazione, nella zona tra le antiche mura e la avenida del Puerto, vicinissima alla casa di José Martí, simbolo dell’indipendenza cubana, s’estende la calle San Isidro. Adesso è una via tranquilla, dove mia figlia più piccola ha frequentato l’asilo Mi Casita Colonial.
Nei primi ‘900 l’aria era completamente diversa, perchè questa era una famosissima zona di tolleranza, dove i protettori locali s’affrontavano con quelli francesi, capitanati da Louis Letot. Il “souteneur” incontrò però pane per i suoi denti nella persona di Alberto Yarini, nato all’Avana il 5 febbraio 1882. Alberto era il figlio prediletto di Juana Emilia Ponce de León «Mimí» - pianista che suonò anche per Napoleone III - e Cirilo José Aniceto Yarini, eminente cattedratico, membro fondatore della Scuola d’Odontologia, fratello del chirurgo José Leopoldo Yarini, a cui è intitolata una delle sale dell’ospedale Calixto García. Come ci racconta Dulcila Cañizares nel suo interessante "San Isidro 1910: Alberto Yarini y su época" (Letras Cubanas, 2006) era discendente di una famiglia d’origine toscane residente in Galiano (Avenida Italia). Elegante e di sicuro fascino, divenne nei primi anni del secolo scorso il più conosciuto magnaccia della zona. Era però “un chulo de categoría”, tanto da passare alla storia con il titolo di “Re di San Isidro", anche se a lui piaceva di più quello de “El Conquistador”. La sua popolarità era enorme ed il partito conservatore ne approfittò per farlo entrare nelle sue fila ed accaparrarsi il consenso degli strati umili del porto e degli stivatori, grazie al suo carisma ed alla sua autorità. Rimangono famose la zuffa con un funzionario della rappresentanza statunitense per un commento anti-cubano e la lite ad un comizio elettorale. I problemi “professionali” di Yarini incominciarono quando la protetta di Letot passò nella scuderia comandata dal nostro. I francesi la presero male ed organizzarono un vero e proprio agguato sui tetti della Calle San Isidro facendo credere a Yarini che una delle sue donne aveva urgente bisogno di lui. Nell’imboscata il “Re di San Isidro” morì a soli 22 anni. Letot, l’assassinò, riuscì a scappare alle autorità, ma non alla vendetta di Pepito Basterrechea, luogotenente di Yarinì. Grazie alle manovre, ai sotterfugi ed alle mazzette, i conservatori fecero in modo che nessuna delle due parti riconoscesse gli aggressori e Pepito venne assolto dal crimine, mentre i papponi francesi furono tutti espulsi.

Tacchino ripieno con congrí

Anche lo scorso fine settimana, come sempre, mi sono dedicato alla cucina che, sicuramente, è una delle forme per avvicinarsi alla cultura di un altro popolo.
Sabato, al ritorno dal mare, dove per la prima volta ho portato Giovannino, ho messo alla prova le mie qualità di chef con la cucina cubana, preparando un tacchino ripieno al congrí. Vi assicuro che, per essere la prima volta, il risultato, come mostra anche la foto, è stato lusinghiero. Ecco la ricetta:

Ingredienti

1 tacchino di circa 8 kg, 3 spicchi d’aglio, 1 cipolla, sale, pepe, 1 cucchiaio di cumino in polvere, 1 cucchiaio di origano secco e il succo di un’arancia amara

Per il ripieno 250 g di fagioli neri messicani, 400 g di riso basmati o orientale a chicco lungo, 1 grossa cipolla, 2 spicchi d’aglio, 1 peperone, 1 cucchiaino di origano secco, 1 cucchiaino di comino, 1 foglia d’alloro secco, sale e pepe.

Pestiamo, con l’aiuto di un mortaio, gli spicchi d’aglio con sale, pepe, cumino ed origano. Aggiungiamo il succo d’arancia e bagniamo l’interno e l’estero del tacchino con questa “salsa”. Tagliamo la cipolla a rondella sul tacchino e lasciamolo riposare per almeno due ore. Nel frattempo prepariamo il congrí. Mettiamo a bagno i fagioli, ma se utilizziamo la pentola a pressione possiamo anche tralasciare l’operazione. Cuciamo i fagioli, in abbondante acqua, insieme al peperone tagliato grossolanamente e all’alloro. Nel frattempo, in una padella, friggiamo l’aglio, la cipolla, l’origano e il comino – ovviamente pestati – e aggiungiamo il tutto ai fagioli, una volta cucinati. Nella stessa acqua di cottura dei fagioli, utilizzando però solo la metà di questi ultimi, faremo cucinare il riso. La proporzione deve essere una tazza d’acqua per ogni tazza di riso. Una volta seccata l’acqua e con il riso al “dente”, possiamo riempire il tacchino con il nostro “congrí”. Mettiamo tutto nel forno, preriscaldato a 170 gradi e lasciamo cucinare per almeno 3 ore, avendo cura, di tanto in tanto, di bagnare il tacchino con il liquido di cottura.

12 luglio 2008

Vota Antonio... Beruff Mendieta


Tra i vari aneddoti della vita politica cubana degli anni precedenti la Rivoluzione, c’è ne uno che – senza usare mezzi termini – lascia letteralmente senza parole…
Il protagonista della nostra storia è Antonio Beruff Mendieta, sindaco dell’Avana dal 1936 al 1942. “Ñico”, come lo chiamavano affettuosamente amici e familiari, puntava però ad uno scranno di senatore della Repubblica. Fatti un po’ i conti, con l’aiuto di collaboratori vari, c’era bisogno, per affrontare le spese della campagna elettorale, di mettere insieme circa 100mila pesos.
Il nostro “Ñico”, invece di fare ricorso alle finanze personale, com’è in voga tra i politici di molti paesi del mondo, pensò bene di affidarsi a quelle dell’erario municipale.
Fu così che propose, al consiglio comunale, la costruzione di una biblioteca pubblica, da costruirsi sui terreni del Parco Trillo, nel quartiere Cayo Hueso dell’odierno municipio Centro Avana.
Com’era da aspettarsi, la proposta – visto il grande vantaggio per la comunità - fu approvata all’unanimità con un finanziamento di 70mila pesos. La somma – come risultava dai libri dell’economato – fu impiegata per l’acquisto dei libri, il pagamento dei materiali da costruzione, dell’impresa appaltatrice e dei progettisti.
L’opera, almeno sulla carta, era terminata, anche se in realtà i lavori non erano mai cominciati, perché i 70mila pesos erano stati utilizzati completamente dal nostro per sostenere le spese della campagna elettorale.
A “Ñico” Beruff Mendieta, nel frattempo eletto senatore, purtroppo i 70mila non erano bastati, aveva bisogno ancora di 30mila pesos per raggiungere i 100mila che – come previsto - aveva speso tra pubblicità, incontri e regalie varie.
Il problema doveva essere risolto ed in tempi brevi. Si scoprì, così, che la biblioteca – anche se mai costruita - aveva dei difetti strutturali e, pertanto, per salvaguardare l’incolumità dei vicini, era necessario demolirla.

Il consiglio comunale, anche questa volta, sempre ed esclusivamente per il bene della cittadinanza, approvò la demolizione della biblioteca, stanziando – guarda un po’ – la somma di 30mila pesos… e poi dice che uno si butta a sinistra...

10 luglio 2008

Con il destino non si può…

Pochi giorni fa, per ripararci dal brutto tempo, siamo entrati nel Palacio de los Capitanes Generales e ne abbiamo approfittato per rivedere il Museo della Città.
Questo palazzo coloniale è stato tra l’altro sede del carcere dell’Avana. Quando gli ospiti sono incominciati a diventare troppi, prima li portarono alla Cabaña e poi, ultimato il nuovo istituto di pena, nel 1834 li trasferirono nel perimetro tra la porta della Punta e l’omonimo castello. Venne chiamato, in modo non molto originale, Cárcel Nueva o de Tacón, dal nome del Governatore, e rimase in funzione fino al 1926.
È qui che inizia una storia vera che dimostra che con “el destino no se puede”, come appunto dice una famosa canzone de Los Van Van. Siamo nel 1907, il carcere può ospitare fino a 2.000 detenuti, divisi in sezioni secondo il sesso, la classe sociale ed i reati. Per un giornalista di cronaca nera un ottimo posto per “pescare” le ultime notizie. Fu così che Guillermo Herrera, reporter di un giornale del mattino, venne fermato da un detenuto intento a lavare il pavimento del cortile. Questi si presentò come Yeyo Vassallo, autista delle carrozze dell’Acera del Louvre. Il cronista, che sapeva il suo mestiere, gli rispose: “Ah, ti accusano della rapina alla bottega di Rayo…”.
In effetti, il 13 gennaio 1907, all’angolo tra Indio e Rayo, avvenne un curioso fatto di sangue. Verso le nove di sera, l’asturiano Francisco García Rodriguez stava quasi per chiudere bottega, quando arrivò una carrozza da cui scesero quattro individui: uno era Vassallo, che stava facendo notte insieme a Manuel Torres (El Zurdito), Alfonso Casanova (El Ñato) e Ricardo Valdés (Bachata). Timoroso della multa per l’orario di chiusura, lo spagnolo fece entrare i quattro e gli servì delle birre accompagnate da formaggio e sardine. Mentre vigilava nel retrobottega che non passasse la guardia di ronda, non s’accorse subito delle intenzioni dei suoi supposti clienti. L’allegra compagnia era infatti entrata con l’intenzione di portarsi via i soldi della cassa e Yeyo affrontò, spavaldamente armato di un coltellaccio, il povero oste. Più per guadagnare l’uscita che per difendersi, anche Don Francisco prese il primo coltello che trovò sul balcone, ma Yeyo gli rifilò due coltellate, una alla guancia ed un’altra, terribile, nel collo. Mentre cadeva con il sangue che gli zampillava dalla ferita, l’oste riuscì a tirare il suo coltello, che si conficcò in una gamba di Yeyo.
Il malvivente ordinò ai suoi complici di saccheggiare il negozio e poi se ne scapparono con il magro bottino di 17 pesos, due caciotte, due bottiglie di vino e qualche dolcetto. Erano intenzionati a prendere per calle Monte in direzione di Cuatro Caminos, ma le troppe frustrate fecero imbizzarrire il cavallo e la carrozza si scontrò contro un portico. Un vigilante s’avvicinò all’incidente ed insistette ad accompagnare Yeyo al pronto soccorso, visto che sanguinava da una gamba. Il delinquente, convinto che l’assalto non fosse stato ancora scoperto e che la ferita potesse essere mascherata dall’incidente, acconsentì. Però qui entra in gioco il fato, perché mentre si trovava in ospedale, venne riconosciuto dal bottegaio, anche lui ricoverato in quel frangente. Yeyo fu subito arrestato.
Durante la detenzione il suo avvocato cercò di derubricare il reato di tentato omicidio in lesioni gravi, perché, nonostante l’incredibile taglio al collo, il ragazzone dell’Asturie riuscì a scamparla e la ferita si rimarginò. Però, per un altro gioco del destino, accadde l’imprevisto per cui il 18 settembre 1907 il Tribunale dell’Avana condannò Yeyo Vasallo alla bellezza di 17 anni, 4 mesi ed un giorno di reclusione. In effetti, poco dopo la conversazione con il giornalista Guillermo Herrera, il corpo senza vita di Francisco García Rodriguez giaceva sul tavolo anatomico del Dottor Cueto, medico necroscopo, che lavorava nell’ufficio di fronte alla carcere, sul Paseo del Prado. “Un fatto curioso, che non si ripeterà molto spesso; quest’uomo non l’ha ucciso la ferita, l’ha ucciso la cicatrice”, disse il forense esaminando il cadavere. Due mesi dopo il fatto, la cicatrice aveva infatti ostruito la laringe e lo sfortunato oste era morto.

09 luglio 2008

Una Parisienne all'Avana


Se Marcorina, al secolo María Calvo Nodarse, fu la prima donna ad ottenere la patente di guida in tutta Cuba, José Muñoz fu il primo cubano ad avere un’automobile. Era il dicembre del 1898 e gli avaneri rimasero esterrefatti vedendolo “sfrecciare” per il Prado. L’automobile su cui viaggiava era una Parisienne due cavalli, acquistata in Francia, alla cifra di circa mille pesos, e prodotta dalla SCAP "Societé Constructions Automobiles Parisienne", di cui Muñoz era il rappresentante generale per Cuba. L’auto, con motore a benzina, raggiungeva la folle velocità 12 km orari.
La seconda automobile arrivò dopo sei mesi, nel maggio 1899, era una decappottabile della "Rochet-Schneider", quattro posti, con otto cavalli ed una velocità massima di 30 km orari. Il suo proprietario, il ricco farmacista Ernesto Sarrá Hernández, l’aveva acquistata sempre in Francia, a Lione, al prezzo di 4mila pesos. Si dice che il dottore percorresse il tragitto La Habana-Güines, città a circa 30 chilometri a sud della capitale, in appena un’ora e mezza.
Il terzo veicolo fu il primo venduto da Muñoz. Era un furgoncino, ovviamente della SCAP, con quattro cavalli. Fu acquistato dalla società "Guardia y Compañia", fabbricante delle sigarette "H. Cabañas y Carvajal", per il trasporto delle merci.
Il 3 settembre del 1899, fece apparizione all’Avana anche il primo veicolo di fabbricazione italiana, era un’auto con tre ruote, di cui non si hanno maggiori dettagli. La prima FIAT a circolare all’Avana fu il modello 1905, con trasmissione a catena.
In ordine arrivarono successivamente al triciclo italiano, due veicoli importati da New York, le prime automobili americane a Cuba, un altro Rochet-Schneider, un Panhard Levasor e alcuni White, a benzina, importati dal Cleveland da Silvestre Scovel, rappresentante a Cuba di una fabbrica di macchina da cucire.
A quei tempi non c’era all’Avana nessuna stazione di servizio e la benzina veniva venduta dalle farmacie. Il primo distributore aprì in Calle Zulueta n. 28. Nel 1903 fu fondato l’Automóvil Club de La Habana e, nello stesso anno, si tenne la prima gara automobilistica alla quale parteciparono cinque vetture. Il vincitore fu Dámos Laine, che con una Darracq di fabbricazione francese percosse il tragitto dal Ponte della Lisa alla cittadina di Guanajay, allora provincia di Pinar de Rio, in solo 57 minuti.
Ad otto anni dall’entrata dell’automobile nella vita dell’Avana, nel 1906, si verificò il primo incidente mortale, all’incrocio tra le strade Monte ed Ángeles. La vittima fu il pedone Justo Fernández, investito dall’auto sulla quale viaggiava anche l’allora presidente della Repubblica, Don Tomas Estrada Palma, che l’anno prima aveva reso obbligatoria la patente di guida.
Solo nel 1914, quando all’Avana circolavano già oltre un migliaio di automobili, fu istallato il primo semaforo, un Eagles di costruzione americana, posto all’incrocio tra le strade Prado e Neptuno.

08 luglio 2008

Mettimi qui la mano, Macorina...


Ponme la mano aquí, Macorina...” è il ritornello di una canzone della messicana Chavela Vargas, scritta da Alfonso Camín, un asturiano arrivato all’Avana a quindici anni. Dopo molteplici lavori, diventò redattore del Diario de la Marina, di cui fu anche reporter di guerra durante la Prima Guerra Mondiale. È una canzone che esprime un alto grado di sensualità, che si può toccare, sentire, assaggiare. In questo senso è cubana ed avanera è la sua protagonista. Il famoso ritornello Mettimi qui la mano” lascia ampie possibilità all’immaginazione, ma i passi più salienti non sono da meno, in questa metafora con i frutti tipici dell’Isola.
"Mettimi qui la mano, Macorina, mettimi qui la mano. ... I tuoi seni, carne di anón, la tua bocca una benedizione di guanábana matura … quell'odore di donna, a mango e canna nuova con cui mi hai riempito…”
Ma chi è questa Macorina?
La Macorina, per l’anagrafe María Calvo Nodarse, fu la prima donna ad ottenere la patente di guida dal comune dell’Avana e la prima a guidare un’automobile a Cuba: negli anni venti, un vero scandalo.
Era nata a Guanajay nel 1892 ed a 15 anni si trasferì di nascosto all’Avana. Probabilmente una fuitina, però all’insaputa della famiglia. La capitale offriva molto a questa giovane bellezza che aveva idee chiare sulla vita. Lasciato il fidanzato, incominciò frequentare uomini con una buona posizione economica. In un'intervista resa alla rivista Bohemia il 26 ottobre 1958 dichiarò: "Oltre una dozzina di uomini stramazzavano ai miei piedi, colmi di denaro, supplicanti d’amore".
Il suo fu un periodo di splendore abbastanza lungo, dal 1917 fino agli anni ‘40. Visse in quattro ville: in Calzada e B, Linea e B, Habana e Compostela e San Miguel tra Belascoaín e Gervasio; possedette cavalli, pellicce e moltissimi gioielli d’incalcolabile valore, oltre a nove automobili, soprattutto europee, le sue preferite. Per mantenere quel tenore di vita spendeva 2.000 dollari al mese, senza contare gli extra con cui aiutava la sua numerosa famiglia. Ebbe amicizie importanti del mondo degli affari e della politica, tra cui il Tiburón, José Miguel Gómez.
Benché lei stessa dichiarasse di detestarlo, è certo che la sua fama è legata a quel soprannome, nato casualmente. Il tratto del Paseo del Prado tra San Rafael e San Miguel è conosciuto come la Acera (il marciapiede) del Louvre, chiamato così per il famoso Caffé del Louvre, fondato da Juan de Escauriza nel 1844. Su quel marciapiede sono stati costruiti l’Hotel Telegrafo e l’Hotel Inglaterra. Di lì passarono i Cuervos per andare ad aprire l’orologeria, scappò Caruso vestito da Radames e non è da escludere che i ladri del Capitolio abbiano fatto quella strada. Sicuramente in un'occasione, mentre María camminava su quel marciapiede, un giovane abbastanza alticcio, vedendo passare quello schianto di donna, disse: "Ecco la Macorina!", scambiandola per la Fornarina, come veniva chiamata Consuelo Bello, una famosa cantante spagnola. Volendo paragonarla alla Fornarina, l’alcol gli fece dire "Macorina."
Come per tutte le persone leggendarie gli aneddoti si sprecano, si dice che lottò per la libertà dell’America Latina, che il suo vero nome era María Constanza Caraza Valdés e che era figlia di una nera e di un cinese, ma le foto pubblicate, compresa quella sulla patente, mostrano una donna bianca. María Calvo Nodarse morì all'Avana in una casa in affitto il 15 giugno 1977. La cosa sorprendente è che siano stati due stranieri: una messicana ed un asturiano ad immortalare questo personaggio cubano: lo scandalo dell'Avana.

06 luglio 2008

Perchè non una targa italiana?


All’entrata di una villa vicino a casa, vedo da tempo una targa in bronzo dedicata dall’autorità spagnole all’esimio Dottor Gustavo Pittaluga Fattorini. Su incarico del Direttore Massimo, ho compiuto alcuni accertamenti, perché il nome dell’illustre ematologo è di chiare origini italiane. Approfittando della gentilezza della coppia che vive in questa bella casa di calle Linea, vengo a sapere qualcosa di più. Infatti Gustavo Pittaluga, nato a Firenze nel 1876, fu un medico italiano, nel 1904 nazionalizzato spagnolo, famoso soprattutto per il suo contributo allo studio dell'ematologia e della parassitologia.
Pittaluga studiò medicina a Roma e si laureò nel 1900. Fu aiutante del medico e naturalista Giovanni Battista Grassi, a cui si deve la dimostrazione che la malaria è trasmessa dalla zanzara anofele.
Nel 1902, Pittaluga si recò a Madrid per partecipare al XIV Congresso Internazionale di Medicina. Entrò in buoni rapporti con i colleghi spagnoli e si trasferì definitivamente nella capitale dei futuri campioni d’Europa, dove successivamente si sposò. Uno dei suoi tre figli, fu un famoso compositore, Gustavo Pittaluga González del Castillo.
In Spagna, Gustavo Pittaluga fu professore universitario e collaborò attivamente con le autorità sanitarie iberiche nella lotta contro le malattie infettive endemiche. S’interessò particolarmente alla malattia del sonno ed al protozoo che la produce. Nel 1919 studiò in Francia, insieme ad altri colleghi, l'epidemia d'influenza nota come "spagnola."
Pittaluga possedeva delle chiare convinzioni politiche e nel 1923 si presentò alle elezioni nelle file Partito Riformista, ma per il golpe di Primo de Rivera non divenne deputato. Fu però eletto nel 1931. Al termine della guerra civile, andò in esilio, prima in Francia e poi a Cuba, dove continuò la sua intensa attività fino alla morte. Nel periodo avanero (1942-1956), scrisse una notevole opera sul dengue emorragico, collaborando con la Facoltà di Parassitologia e Malattie Tropicali dell'Università dell’Avana, in particolare con un luminare della medicina cubana, il dottor Pedro Kourí Esmeja.
Non vorrei essermi sbagliato, ma uscendo dalla casa, mi è parso di vederlo ancora seduto nel suo studio, preso anche lui dai suoi, sicuramente più nobili, “pensieri avaneri”.

03 luglio 2008

Il brillante del Capitolio

Quella di oggi è una storia incredibile, fatta di superstizioni, uno strano furto ed un ancor più strano ritrovamento. E’ la storia del brillante del Capitolio dell’Avana.
Esattamente sotto i 62 metri della cupola del Capitolio, è inserita nel pavimento la copia del brillante di 24 carati, di cui parliamo oggi, che segna il chilometro zero di tutte le distanze dall’Avana.
Ad interessarsi dell’acquisto del brillante fu l’allora ministro delle Opere Pubbliche, Carlos Miguel de Céspedes. Il costo fu di 12mila pesos, 9mila furono versati dalle maestranze e dall’impresa appaltatrice mentre i 3mila restanti dallo stesso ministro.
La gemma, però, aveva una cattiva fama.
Il venditore era Isaac Estéfano, un gioielliere arabo (forse turco o libanese) residente all’Avana, che aveva fatto buoni affari con i gioielli dell’aristocrazia russa. La gemma era uno dei cinque brillanti incastonati nella corona dell’ultimo zar di Russia ed era arrivata a Cuba, da Parigi, su richiesta di Maria Jaén, moglie dell’ex presidente Aldredo Zayas y Alfonso. La “first lady”, però, era ritornata sui suoi passi ritenendo la somma di 17mila pesos troppo alta. E per Estéfano cominciarono i problemi, tentativi di rapine ed anche un mezzo sequestro.
Agli antichi proprietari non era andata meglio. Lo zar era stato ucciso con tutta la famiglia, la duchessa dalla quale Estéfano l’aveva comprato morì in strane circostanze ed il mediatore russo era rimasto cieco dopo un’aggressione.
L’arabo, così, fu felicissimo di venderla, anche se ad un prezzo minore, al ministro Carlos Miguel de Céspedes e il diamante arrivò al Capitolio.
«Il gioiello era considerato uno dei tesori più protetti della Repubblica. L’avevano incastonato in agata e platino, prima di introdurlo in un blocco d’andesita, il granito più duro del mondo, che a sua volta, all’incassarlo nel pavimento, al centro del Salone, era stato ricoperto da un altro di calcestruzzo. Un vetro smerigliato, così duro che era ritenuto infrangibile, ne rafforzava la sicurezza», scrive il giornalista Ciro Bianchi Ross. Sta di fatto che bastarono solo 30 minuti per rubarlo.
Il 25 marzo 1946, alle sette del mattino, il vigilante Enrique Mena, notò la mancanza del brillante, dando l’allarme. Sul posto furono ritrovati la fodera di un cappello macchiata di sangue, diversi fiammiferi usati e una curiosa scritta a matita sul pavimento. Diceva: «2:45 a 3:15 – 24 carati».
Le indagini, condotte dal pubblico ministero Arturo Hevia, non portarono a nessun risultato. Sembrava un furto perfetto: nemmeno l’ombra di impronte digitali.
Il 2 giugno 1947, il presidente della Repubblica, Grau San Martín, convocó nel suo ufficio alcune delle figure più importanti della nazione e ruppe il silenzio con queste parole: «Signori, vi ho convocato per presenziare alla consegna di un brillante che ho ricevuto in forma anonima e che, a quanto sembra, è lo stesso che fu sottratto tempo fa dal Capitolio Nazionale. Lo consegno al dottor Hevia».
La gemma, all'interno di un vecchio astuccio giallo, passò di mano in mano, tra lo stupore e l’incredulità dei presenti. Il presidente del Senato, Suárez Fernández, confermò che era il brillante rubato.
Il caso fu chiuso senza scoprire i colpevoli e - soprattutto - come il brillante era arrivato alla scrivania del presidente.
Humberto Vázquez García, nel suo documentatissimo libro “El gobierno de la kubanidad” (Il governo della kubanità – ed. 2005) cerca di fare luce sul caso. Ricorda che, allora, per molti i ladri erano da ricercare tra le sfere del potere e grazie alla testimonianza dell’autentico Segundo Curti Messina, figlio d’italiani e più volte ministro, ci spiega come avvenne la resituzione: «Pablito Suárez fu colui che lo portò [il brillante] alla scrivania di Grau». Era sposato con Tatita Grau, una delle nipoti del presidente; matrimonio che gli consentì l’avvicinamento al Palazzo e il grado di comandante della Polizia Nazionale. Lui fu l’intermediario nella restituzione del brillante, diceva Curti, operazione nella quale contò con l’aiuto di Abelardo Fernàndez, El Manquito, capo della Polizia del Ministero dell’Educazione.

02 luglio 2008

Una proposta che non posso rifiutare.

Un suggerimento velato mi spinge ad approfondire le gesta di Don Alfredo Hornedo y Suarez. Prendo spunto dall’articolo inviatomi dal Direttore in persona, scritto dal giornalista Roberto Funes Funes. Diciamo subito che non ne esce un bel quadro del protagonista.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra delinquenti e prostitute e non si può escludere che fin da ragazzino sia stato più volte al fresco. S’accorse così che quella vita, definita da Funes, senza tanti giri di parole, “da camorrista e ladruncolo”, non aveva un futuro e perciò si cercò un lavoro. Alfredo passò quindi alle dipendenze della ricchissima famiglia Maruri, e non si è mai saputo nel dettaglio come riuscì dalle scuderie ad imbambolare Blanquita, la bella e innocente figlia dei signori. Sta di fatto che diventarono i suoi suoceri e lui passò dai cavalli ai soldi in tasca, i vestiti buoni e la vita agiata.
Con il suo carattere ambizioso, le banconote ed i buoni contatti, entrò nel Partito Liberale e seppe accattivarsi le simpatie del capo, José Miguel Gómez y Gómez, detto il “Tiburón”. Visto che anche il De Mauro indica con il termine squalo “una persona molto avida che si è conquistata posizioni di prestigio in modo privo di scrupoli”, immaginatevi che compagnia. Sotto l’ombrello protettivo di Don José, Hornedo diventò prima assessore del comune dell'Avana, poi Rappresentante alla Camera ed infine Senatore della Repubblica. Funes ci riferisce che negli affari si comportò “come una specie di "padrino" mafioso, traendo profitto da tutto ciò che proveniva dall’estorsione, dal ricatto e dalla corruzione”. Per difendersi da coloro che si scandalizzavano con i suoi metodi fondò tre giornali: El País, Excelsior ed El Crisol, col “denominatore comune della sua mancanza di scrupolo cronica, genetica, propria”.
Dalla puntata precedente, sappiamo già cosa costruì in calle 1.ra ed inoltre che era proprietario del Mercato Unico (l'odierno Quatro Caminos). La concessione di questo mercato agricolo, ottenuta nel 1918, era un vero monopolio perché proibiva l'esistenza di qualsiasi altro stabilimento simile in un raggio di due chilometri e mezzo e l'apertura di punti vendita al dettaglio ad una distanza inferiore ai 700 metri. La costruzione del Mercato Unico richiese un investimento di 1.175.000 pesos e Hornedo ottenne la licenza per trent’anni. Quando stava per scadere il termine, spese una fortuna per far eleggere suo nipote, Alfredo Izaguirre, come sindaco dell’Avana, ed assicurarsi così la proroga della concessione. Non ci riuscì, ma la concessione, con alcune variazioni, fu prorogata. Solamente nel 1957 il monopolio incominciò ad incrinarsi con l'inaugurazione del Mercato Pubblico, costruito nel perimetro tra Carlos III, Árbol Seco, Estrella y Pajarito, curiosamente quasi di fronte alla casa di Carlos III e Castillejo, dove Hornedo visse per anni.
In campo politico, Funes lo definisce un reazionario, di certo coprì tutto l’arco costituzionale passando da liberale, a conservatore, machadista, batistiano, autentico, nuovamente batistiano e, dal 1959, "esiliato". E volevo proprio vedere…

01 luglio 2008

Bambini di tutto il mondo... unitevi!

Sabato “mi toccava” il concerto di Liuba Maria al Teatro Carlos Marx. Bene, mi devo assolutamente ricredere, perché questo spettacolo per bambini è stato bellissimo. Vedere i piccoli cantare a memoria le canzoni (tra cui “Papaveri e Papere” in versione spagnola) e ballare sugli spalti è già emozionante. Se poi s’unisce l’arte dei ballerini in erba della Scuola Nazionale di Balletto l’effetto è da pelle d’oca (o da gallina, secondo i cubani). Lo consiglio vivamente, tra l’altro l’entrata costa 8 pesos cubani (circa 20 centesimi d’Euro), e si coglie un aspetto straordinario di questo paese.
Già di per se il teatro vale la pena d’essere visitato, perché è tenuto benissimo ed è qui che si svolgono i concerti più importanti della capitale. Si trova in 1.ra e 10, Miramar ed è stato fondato da Alfredo Hornedo Suárez nel 1949. Allora si chiamava Teatro Blanquita, dal nome della prima sposa. Ai suoi tempi era il più grande del mondo, con 6.600 posti, 500 più del Radio City Hall di New York, con una zona bar per 200 persone. Il signor Hornedo, proprietario del Mercado Unico, ubicato nell’isolato tra le vie Monte, Cristina, Arroyo e Matadero, possedeva tutta la zona vicina al teatro.
Nel 1935, aveva creato al numero 608 di calle 1.ra un club privato, il Casino Deportivo de La Habana, dove ora si trova il Club Sociale Cristino Naranjo. L’aveva fatto perché, per la sua pelle mista, non gli era stata ammessa l’iscrizione all’Havana Biltmore Yacht and Country Club ed al Havana Yacht Club. È necessario sottolineare che in questo club della classe media in ogni caso non potevano entrare i non bianchi.
Successivamente, nel 1957, Alfredo Hornedo, impegnato attivamente in politica, costruì al prezzo di 3.500.000 dollari, il residence Rosita, una costruzione di undici piani intitolato alla sua seconda moglie, sito in 1.ra y 0, dove oggi troviamo l’edificio Sierra Maestra. Era composto da 172 appartamenti con 1, 2 o tre stanze ed il proprietario viveva nel Penthouse. Se non era diventato sindaco della città, direi che lo era per lo meno della zona.